Il lavoro dell’educatore professionale ai tempi del Covid 19

Matteo Garino, educatore professionale

Come è cambiata la professione dell’educatore?

A un anno esatto dall’esplosione della pandemia, che ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere, abbiamo provato a capire quali sono stati i mutamenti più importanti in una delle professioni del terzo settore che, forse, ha più a che fare con la residenzialità e i rapporti con le persone.

Per farlo, ci siamo affidati alle parole di un professionista. Abbiamo incontrato Matteo Garino: educatore professionale, dal 2010 impegnato con la Cooperativa Sociale Esserci di Torino, per la quale si occupa di progetti residenziali con minori stranieri.

Parallelamente si occupa anche di educativa di strada e interventi nelle scuole piemontesi.

 

Ciao Matteo, Il tuo è un lavoro strettamente legato al rapporto con le persone. A un anno dall’inizio della pandemia, come è cambiato il tuo lavoro?

Per certi aspetti è rimasto lo stesso, per altri no. All’interno della comunità, la forma è rimasta la stessa: un servizio residenziale 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Però diciamo che è aumentata la sua complessità.

Il lockdown ha stravolto la quotidianità di tutti: operatori e ospiti. Non è stato facile gestire 10 minori già di per sé vulnerabili, ognuno con le sue caratteristiche e fragilità. Tenerli chiusi in comunità a causa delle restrizioni è stato difficile. Le tensioni sono aumentate anche a causa di una convivenza forzata, che ne ha acuito le conflittualità già in essere. Sono diminuiti i momenti di sfogo ed è venuta a mancare la rete esterna di attività informali, come lo sport, ad esempio.

Lavorando con i minori stranieri è importante questo di tipo di relazione: per favorire l’integrazione e per costruire l’autonomia. La sospensione dei progetti di borsa lavoro, in questo senso, è stata un grosso ostacolo all’interno dei percorsi educativi dei ragazzi.

 

E per quanto riguarda l’educativa di strada?

Un discorso diverso. Venendo a mancare la possibilità di aggregazione e socializzazione, ci siamo dovuti reinventare del tutto, sperimentando altre modalità per mantenere le relazioni. Sto parlando di Whatsapp e i social network. Un modo per mantenere il contatto con i ragazzi incontrati in strada.

 

I tuoi interventi nelle scuole, invece, si incentrano sulla media-education. Insomma, un tema centrale…

Il tema del web e i social media è diventato centrale. Se, da un lato ci aiuta in alcuni contesti, dall’altro è diventato evidente quanto i ragazzi siano confusi in merito alle potenzialità e ai rischi correlati ai media.

L’educatore (soprattutto se lavora con gli adolescenti) deve prestare molta attenzione a questo tema, che deve essere, contemporaneamente, sia strumento che oggetto di lavoro.

 

Tornando al lavoro in comunità. Come gestite quotidianamente le vostre attività con gli ospiti, nella residenzialità?

Come dicevo, la nostra comunità è abituata a costruire reti all’esterno per i ragazzi ospiti della struttura, sulla base delle esigenze e dei desideri di ogni singolo ospite. Durante il lockdown abbiamo dovuto costruire un programma settimanale molto fitto, proprio perché sono venute a mancare tutte le reti informali. Per noi è stata una novità, in quanto normalmente eravamo abituati a organizzare meno attività standardizzate di gruppo, personalizzando il più possibile ogni percorso educativo.

 

Credi che la pandemia abbia esposto a ulteriore fragilità i soggetti che segui, già socialmente esposti a marginalità, soprattutto se minori?

Sicuramente la pandemia ha contribuito ad acuire nei soggetti già fragili alcuni aspetti problematici tipici dell’adolescenza. In generale, emerge la convinzione di vivere una sorta di senso di abbandono da parte delle istituzioni e degli adulti di riferimento.

Ma voglio insistere sul venir meno delle reti informali e formali esterne, fondamentali per gli adolescenti di oggi. Ovviamente, non è una considerazione polemica sulle modalità di gestione dell’emergenza sanitaria. Ma, nei fatti, i giovani hanno patito duramente questa situazione, spesso venendo semplicemente additati come quelli che si assembrano e se ne fregano delle regole. Molto spesso ingiustamente.

 

Dopo una fase iniziale di emergenza, hai ricevuto formazione specifica sulla gestione del lavoro in tempi di pandemia?

Assolutamente sì.

Inoltre, la cooperativa per la quale lavoro è stata molto attenta a tutto ciò che riguardava l’emergenza sanitaria fin subito, sia per quanto che riguarda i dispositivi di protezione, forniti sempre puntualmente ai lavoratori, sia per aver messo a punto protocolli e procedure per adattarsi alle indicazioni sanitarie.

 

Quali sono le skills che senti di aver migliorato o che hai imparato da questa emergenza?

Direi la curiosità.

A prescindere dalla pandemia, nel mio lavoro ogni giorno si imparano cose nuove e si è in continua formazione. A maggior ragione lavorando con gli adolescenti, che vanno velocissimi.

Per lavorare con gli adolescenti la prerogativa principale, a prescindere dal ruolo professionale di ognuno di noi, è essere curiosi. Bisogna esserlo senza dimenticare di essere educatori e che il nostro è un lavoro di relazione. Ma la relazione può svilupparsi anche durante una partita a Fortnite, ad esempio, o guardando insieme l’ultima challenge di TikTok o ascoltando la musica trap.

Insomma, entrare nel loro mondo e comprenderlo meglio.

 

Invece, secondo te, a cosa non si può rinunciare, in tempi di pandemia da Covid 19?

Sicuramente un educatore deve essere elastico e spendibile su più fronti.

Mi spiego meglio. Durante l’emergenza sanitaria molti servizi sono rimasti chiusi: educative scolastiche, ludoteche, centri giovani. Altri servizi, invece, sono andati in affanno proprio perché durante l’emergenza la mole di lavoro e la complessità sono aumentate molto: come le comunità residenziali. E questo è il motivo per il quale molti colleghi sono stati chiamati per offrire un sostegno ai servizi più in difficoltà.

Devo dire che, anche professionisti non abituati a lavorare con questo tipo di utenza, hanno dato il loro contributo, portando un punto di vista e una metodologia differenti. Questa riflessione mi ha portato ad apprezzare l’importanza del confronto: una vera e propria arte per il nostro bagaglio professionale.

 

Come vedi il futuro della tua professione? C’è qualcosa che è mutato definitivamente?

La mia professione muta continuamente. Più che una proiezione sul futuro, credo che l’educatore debba necessariamente proiettarsi su un presente in continua evoluzione.

La capacità di far fronte agli imprevisti, alle emergenze, ai cambiamenti è una competenza base di ogni professionista educativo. La pandemia ha reso visibile ciò che facciamo da sempre: ci reinventiamo in continuazione e consapevolmente. L’obiettivo? Offrire risposte e strumenti concreti ai bisogni via via emergenti.

 

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